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La tragedia delle sorelle Kessler e il dovere di uno sguardo umano – di don Giuseppe Lopresti

di don Giuseppe Lopresti

Reggio Calabria – “Non sono nessuno per giudicare chi, nel mistero del proprio dolore e della propria interiorità, arriva a una scelta estrema come quella di togliersi la vita. Nessuno di noi lo è. Il Signore solo conosce davvero il peso delle sofferenze, delle solitudini e delle paure che abitano il cuore umano, e che a volte diventano così gravose da oscurare ogni speranza. È per questo che, davanti alla morte delle sorelle Kessler — due donne che hanno segnato un’epoca, un pezzo di spettacolo italiano e perfino l’immaginario collettivo — non posso che chinare il capo e affidarle alla misericordia infinita di Dio, che guarda oltre i gesti e comprende ciò che noi non riusciremmo mai a vedere.

La misericordia divina è lo sguardo che abbraccia, risana e perdona. È lo sguardo che si posa anche su chi compie scelte che per noi rimangono incomprensibili, e che solo Lui può illuminare dall’interno. Ma proprio per questo, come credente, come sacerdote e come uomo, sento il dovere di ribadire con chiarezza qualcosa che riguarda tutti: il suicidio non può essere normalizzato, né presentato come un’opzione neutrale, come una possibilità tra le tante da prendere in considerazione con leggerezza.

Viviamo in un tempo in cui tutto rischia di essere messo sullo stesso piano, in cui ogni fatto viene trasformato in argomento di discussione, spesso senza la profondità che meriterebbe. Questa sera, nella trasmissione Cinque Minuti condotta da Bruno Vespa, la vicenda delle Kessler è stata trattata con un tono che, pur collocato all’interno di un contesto informativo, ha finito per sfiorare la banalizzazione di un dramma umano. Vedere un fatto così carico di sofferenza essere affrontato quasi con disinvoltura, con un sorriso che stonava con la gravità del tema, mi ha ferito interiormente.

La morte volontaria non è una notizia “normale”. Non lo è mai. Ogni suicidio è il segno di un dolore profondo, spesso taciuto, sempre radicale. È un grido silenzioso che chiede rispetto, pudore, ascolto. Chiede soprattutto che il nostro sguardo non sia superficiale, non sia rumoroso, non sia giudicante. Parlare di queste vicende significa riconoscere la fragilità dell’essere umano, la necessità di una rete di affetti, di attenzione, di comunità che sostenga chi è tentato di arrendersi.

Anche il mondo dell’informazione ha una responsabilità: ricordare che le parole hanno un peso, che il modo di raccontare i fatti influisce sul modo in cui la società li comprende e li vive. Non tutto può essere trattato come intrattenimento; non tutto può essere semplificato per esigenze televisive. Ci sono momenti in cui occorre fermarsi, rispettare il silenzio, lasciarsi toccare dal dolore che si racconta.

Le sorelle Kessler, con la loro eleganza, la loro ironia e la loro presenza scenica, hanno attraversato un secolo di storia lasciando un’impronta luminosa. Oggi, davanti alla loro tragica fine, possiamo solo pregare per loro e per tutti coloro che vivono nella solitudine interiore. Possiamo scegliere uno sguardo più umano, più vero, più capace di compassione.

E chiederci, una volta di più, come possiamo essere accanto — davvero — a chi soffre”.